I dhows dell’Oceano Indiano
di Stefano Ruia
Da migliaia di anni le barche arabe solcano queste acque. Noi le chiamiamo con il termine inglese «dhow»: in realtà dau significa barca, battello o nave. Un interessante esame dei tipi e dei modi di costruzione scritto «sul campo».
SALPIAMO, INSHALLAH!
l caldo sole si è abbassato ancora. Si avvicinano le sei, ora del tramonto per chi come noi si trova solo due gradi a sud dell'equatore. Per fortuna siamo arrivati; Nasymu, il dhow di dieci metri a vela e motore che ci ha portato qui, viene ancorato. La distanza percorsa in linea retta non è molta, ma è stata almeno triplicata da tortuosi passaggi di stretti canali, tipici della laguna di mangrovie. Il tempo è stato moltiplicato ancor di più dalle soste dovute all'escursione della marea, che talvolta oltrepassa i tre metri. Ma il tempo, in queste zone lontane dal nostro «progresso», non ha alcuna importanza.
Siamo a Ras Mtangawanda, nella parte settentrionale dell'isola di Pate; è Kenya, ma il paesaggio è ben lontano da quello della savana dei depliants turistici. Navigando a Nord di Lamu, verso la Somalia, si incontrano solo lagune di mangrovie, barriere coralline e qualche splendida spiaggia bianca. Anche la gente non è più quella di etnia bantu, ma prevalgono i tipi di una razza mista arabo-bantu. Una piccola piroga scavata in un tronco, chiamata «hori», ci viene a prendere.
Riusciamo, con grandi equilibrismi e preoccupazioni anche maggiori, a trasbordare le tende e le attrezzature a terra. Appena scesi chiediamo ad un vecchio, «Mzee» è il titolo onorifico che usiamo, il permesso di poterci accampare, in quanto Nasymu, come tutti i dhows, non ha cabine. Senza esitazione, con l'ospitalità tipica della gente del posto, ci viene accordato. Ci facciamo indicare dove opera il fundi Haji Shee che, se è vero quanto saputo a Manda, sta terminando la costruzione di un dhow da otto metri.
Saltando sulla spiaggia, per evitare le dolorose punture delle pulci di sabbia, raggiungiamo il «cantiere». È costituito da pochi pali verticali che reggono una tettoia di foglie di cocco intrecciate, nella quale i buchi sono più numerosi delle zone coperte. Sotto la tettoia c'è una barca di meno di otto metri, con fasciame robusto ma grezzo. Alcune persone sono intorno allo scafo: abbiamo qualche difficoltà per riconoscere il fundi.
«Fundi» in kiswahili è il termine con cui si indica ogni sorta di operaio specializzato: sono fundi l'idraulico come pure il velaio, l'elettricista e, come nel nostro caso, il mastro d'ascia. Offriamo delle sigarette che vengono accettate, ma quasi con indifferenza. La gente ha un comportamento altero, non chiama i bianchi bwana (signore) come succede più a sud, ma semplicemente mzungu (uomo bianco).
Attacchiamo discorso sulla barca.
«Fundi Haji, bella barca questa che sta costruendo, robusta».
«Si mzungu, questa è una mashua da trasporto, quindi deve essere molto robusta per reggere il carico».
«Quali sono le sue dimensioni?».
«Quelle che vedi».
«Quanto peserà finita?».
«Lo sa Allah». Intanto Haji Shee lavora a piccoli colpi di ascia ricurva l'esterno del grezzo fasciame e lo scafo assume, come per magia, un aspetto liscio ed uniforme.
«Come fai ad iniziare la costruzione senza conoscere le dimensioni?».
«Ho idea di quanto sarà lunga, ma la misura definitiva la stabilisce il trave che uso per la chiglia».
«E non hai dei disegni o modelli?».
«Certo, sono quelli che conservo nella mia mente, che ho imparato da babako (contrazione di baba yako, mio padre), il fundi Shee, e che io sto insegnando a questi miei due figli». Mohamed Haji e Abbas Haji, rispettivamente di dodici e dieci anni, sorridono. A giudicare dalla loro abilità con l'ascia dovranno crescere parecchio prima di poter essere paragonati al padre. Ma loro vanno anche a scuola, mentre Haji Shee ha sempre conosciuto solo barche.
«Quanti anni hai Haji Shee?».
«Mah! Penso quarantacinque».
«E da quanto tempo costruisci barche?».
«Saranno circa quarantadue anni».
«Quante lune ha richiesto la costruzione di questa mashua, ormai quasi terminata?».
«Tisa».
«Nove mesi, però! E quanto costa finita?».
«Chiedilo al padrone» - ed indica un interlocutore finora silenzioso, salvo qualche risata emessa dopo le nostre domande. Mohamed Abdallah ci scruta, indeciso se vogliamo solo sapere, ed allora il prezzo sarà quello reale, o se siamo intenzionati a comprare, ed allora il prezzo sarà molto, molto più alto poiché bisogna tenere conto della trattativa.
«Sessantamila scellini più il cibo per il fundi e gli aiutanti». Il cibo costa pochissimo, sessantamila scellini equivalgono circa a quattro milioni e mezzo di lire. Sembra poco, ma bisogna considerare che sessantamila scellini corrispondono a sessanta mensilità di un buon stipendio.
«Non è un pò troppo?».
«No, anzi! Considera che tutti i legni sono dei migliori, abbiamo risparmiato solo sulle ordinate, poiché di legni curvi che rispettassero la forma abbiamo trovato solo questi» . Infatti il problema di questi costruttori è trovare in natura ciò che meglio e con minor lavorazione si adatta allo scopo. Non sapremo mai se il prezzo è reale o no: Mohamed Abdallah da un lato esalta la qualità della barca, tipico di chi vende, dall'altro ne mette in luce un punto debole, cosa che un commerciante arabo non farebbe mai.
Il carattere arabo ed altero degli abitanti della zona è giustificato dalla ricchezza della loro storia. Le loro barche, a detta di alcuni studiosi, sono una piccola evoluzione di quelle che usavano i Sumeri cinquemila anni fa. Se ne trova traccia certa nel VII sec a. C., con il regno di Himyar, poi unitosi a quello di Saba. Noi mediterranei le abbiamo scoperte soprattutto come mezzo di razzia usato dai corsari agabiti dieci secoli or sono. Hanno sempre avuto il timone centrale e non il remo-timone laterale, e issavano, per la prima volta, la vela latina (come noto, essa deriva da «alla trina», cioè triangolare, mentre non ha nulla da spartire con i latini); i loro marinai conoscevano la bussola, proveniente dalla Cina, ed inventarono la navigazione astronomica. Ancora oggi i nakhoda, i comandanti, dispongono del kamal, un primitivo sestante. Esso è costituito da una tavoletta metallica oblunga riportante alcune incisioni ai bordi, corrispondenti a diverse stelle e diversi intervalli di tempo; ha un foro al centro in cui è fissata una cordicella, che presenta una serie di nodi. Tenendo la cordicella in bocca, in modo che possa scorrere pur restando tesa, il nakhoda allontana la tavoletta dal volto, con un segno di riferimento fisso sull'orizzonte, fino a far coincidere un' incisione, quella relativa alla stella ed al tempo, sull'astro osservato. A questo punto, contando i nodi della cordicella, determina la latitudine a cui naviga. Poiché le loro rotte sono principalmente costiere, mentre le loro traversate avvengono sempre per parallelo, ciò spiega il motivo per cui la bussola, pur se da loro conosciuta, è stata poi abbandonata come strumento di navigazione in favore del kamal e delle stelle. Ancora oggi la maggior parte degli astri ha nomi arabi.
Un tempo, queste imbarcazioni erano costruite in tutti i paesi arabi, sulle coste orientali dell'Africa fino a Zanzibar e sulle coste occidentali dell'India. Poi, la ricchezza del petrolio e l'arrivo dei motori e della plastica hanno fatto sì che i dhows tradizionali cominciassero a soccombere; la tradizione costruttiva continua, ma a ritmo ridotto, solo nelle zone più povere o quelle meno modernizzate. L'arcipelago di Lamu è, per volontà degli abitanti, fra queste ultime. Il primo insediamento storico, risalente al nono secolo, fu la città di Manda sull'isola omonima. Dopo l'arrivo dei primi esploratori portoghesi (alla fine del 1400, Alvares Cabrau riportò di avere visto barche superiori a dieci tonnellate di stazza nel porto di Malindi), si trascinò per centinaia di anni la battaglia fra il Portogallo e le indomite città- stato arabe di Manda, Lamu e Pate, appoggiate dai sultani omaniti, comunque in conflitto anche fra loro. Agli inizi del 1800 Pate cambiò bandiera passando dalla parte dei Mazrui di Mombasa, eterni nemici della dinastia omanita, che governava allora fino a Zanzibar, ed attaccò Lamu. Per un errore nel calcolo delle maree, la flotta si arenò sulla spiaggia di Sheila e lì fu massacrata dagli abitanti di Lamu. Alla fine del secolo scorso la zona sarebbe dovuta entrare a far parte del protettorato tedesco di Witu (città costiera del continente), ma l'indipendenza delle città-stato restò ancora forte. Infine, arrivarono gli inglesi, che nel 1922 riuscirono a deporre lo sceicco di Lamu. Per la verità le truppe inglesi erano state precedute, proprio sul finire del 1800, dai «Freelanders», socialisti britannici che volevano fondare la città di Utopia alle falde del Monte Kenya. Si fermarono a Lamu, dove scandalizzarono gli amministratori per i loro truci discorsi e la popolazione per la scarsa moralità ed il consumo di alcool.
Con l'avvento delle grandi navi a motore l'arcipelago, da sempre legato alla portualità dei dhows, perse del tutto la sua importanza, a favore di Mombasa. Negli anni Sessanta la fama della sola Lamu risorse, come ameno luogo di villeggiatura per gli hyppies. Di fronte a tanti modernismi, gli abitanti non potevano che rifugiarsi nella tradizione. Oggi Lamu è una delle poche isole al mondo in cui sia permesso di girare solamente a piedi od in asino. Per raggiungere l'altra estremità dell'isola bisogna camminare o veleggiare su un piccolo dhow fra i canali di mangrovie. Più triste la situazione delle altre città-stato, cadute nell'oblio e mai più risollevatesi.
Non c'è da stupirsi, quindi, se ancora oggi i fundi debbano costruirsi da soli i chiodi. D'altronde la tradizione vorrebbe che le barche siano costruite senza, e in tal caso il fasciame è fissato con spine di legno e legature di cocco. Una imbarcazione chiodata può avere un problema: navigando nel Sud della penisola arabica potrebbe venir risucchiata e distrutta dalla Montagna Calamitata, almeno così afferma la leggenda. In realtà, i legni sono talvolta così duri che i chiodi possono essere infissi solo dopo aver praticato il loro foro con il kekee, il trapano ad arco (l'elettricità non è ancora disponibile!), in questo caso le spine di legno sono più economiche. Le barche del Malabar, in India, costruite in legno morbido (leggi «teak»!) hanno sempre avuto i chiodi. È vero che il legname usato per la costruzione è una variabile non solo del luogo ma soprattutto della disponibilità sul mercato. Per il fasciame spesso viene usato del mogano, altre volte dei legni locali come il durissimo Bambakofi ; alcuni elementi strutturali sono persino realizzati in decorativo ebano! Fra i legni di minor pregio è da notare l'uso della profumata canfora. Le antenne sono in genere costituite da più aste leggere (mangrovie, bambù d'importazione, etc) unite a mezzo di legature. Le ordinate sono disponibili curve in natura, grazie alle radici delle mangrovie (considerate però di scarso pregio) o di alberi più robusti. Per la verità un sistema di piegatura c'è: anticamente il legno veniva lasciato a bagno in olio di pesce, mentre oggi viene bagnato di kerosene e portato sul fuoco, così che bruciando il combustibile l'acqua contenuta nel legno vaporizza ed esso può essere piegato. La calafatura, (kalafati), si effettua diversamente a seconda della grandezza della barca. La base è sempre del cotone impregnato di olio di cocco, ma come pittura finale esterna impregnante si usa il sifa per le più piccole e lo shahamu per le più grandi. Il sifa è olio di pescecane, che viene mescolato a calce, prodotta da calcinazione delle conchiglie, e passato sull'opera viva. È antiteredini e la migliore qualità è quella ottenuta dallo squalo martello, frequente in questi mari. Lo shahamu è un impasto di calce e grasso di manzo, riscaldato al fuoco e spalmato a mano sulla carena. La qualità migliore è quella con grasso di cammello, ma l'esaurirsi del traffico carovaniero dal Nord-Africa ne rende difficile l'approvvigionamento. La manutenzione della carena viene effettuata al massimo ogni tre mesi, ma per le più grandi anche a metà del viaggio, prima del ritorno, in quanto il carenaggio si effettua avvalendosi delle maree. Oggi la crescente diffusione dell'antivegetativa occidentale rende necessaria questa operazione solo ogni sei mesi. Una bella descrizione dei metodi costruttivi è riportata nel poema «Utendi» del grande poeta swahili contemporaneo Sheikh Nabhany.
Il nakhoda, non solo è responsabile della navigazione ma è anche un commerciante. Tocca a lui, infatti, contrattare la vendita od il baratto delle mercanzie, un tempo principalmente schiavi (Zanzibar era il più importante mercato mondiale), oggi soprattutto sale, frutta secca, cemento, spezie, aste di mangrovia, tappeti, bauli e droga.
Tutte le operazioni a bordo sono fatte senza ausilio di paranchi, se non per la drizza, che svolge anche funzione di paterazzo. Perciò all'urlo «kaza deemani» l'equipaggio comincerà a cazzare la scotta della vela, tirando tutti insieme; i verricelli sono ovviamente sconosciuti. La similarità ad un italianissimo «cazza di mani» non vi illuda: lasca non si dice «lasc» e nemmeno un più arabeggiante «allasc». Caricando qualcosa, bisogna fare attenzione: un italiano «giù» otterrebbe l'effetto opposto, poiché la pronuncia è perfettamente identica a quella del termine swahili che, al contrario, indica su!
Articolo tratto da: http://www.nautica.it/info/cultura/dhows.htm
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